50 NZ - Cinquanta giorni in Nuova Zelanda
Siamo agli antipodi e anche questi pensieri nomadi si leggono al contrario: dal basso verso l'alto.
Siamo agli antipodi e anche questi pensieri nomadi si leggono al contrario: dal basso verso l'alto. Procedono come il viaggio: dall'isola del sud all'isola del nord. Si muovono come me: dai piedi alla testa.
Kaikoura, Seal Colony, isola del Sud.
AUCKLAND. Il cuore di New Zealand
Inizialmente non dovevo neppure venirci a Auckland, la grande città mi attrae poco. E invece ci si passa per andare nella regione a nord, chiamata Up Auckland, e mi ci sono fermata qualche giorno al ritorno, complice il simpatico ed economico ostello “LyLo”, in cui sto passando piacevoli momenti di riposo, lavoro e scrittura.
Riparto da qui stanotte per l’Australia, è la mia ultima tappa.
La natura in New Zealand è senz’altro la maggiore attrazione, e ne ho fatto in questi due mesi una gran scorpacciata. Ma è Auckland a rivelare l’anima profonda di questo paese. Il cuore pulsante, la vera capitale che supera in modernità la compassata Wellington.
Alla fine del viaggio mi rivela qualche aspetto che ho colto soltanto parzialmente in giro per le due isole. Dove ci sono soltanto cittadine, villaggi, piccoli agglomerati di case, villette isolate in aree spopolate.
Auckland è anzitutto una città cinese. Ovunque insegne, ristoranti, supermarket, gruppi di giovani a spasso e intorno alle università. New Zealand è in effetti molto legata alla Cina, esporta e importa tutto. Capisco adesso le preoccupazioni di un autista che ci raccontava di una presenza che sta diventando ingombrante, e un po’ pericolosa, a suo dire, per l’identità della nazione.
Vengono a lavorare e a studiare. E non soltanto loro, molta Asia studia nelle università di Auckland, Malesia, Indonesia, Giappone, l’Asia ricca che manda i figli qui. Una porta verso l’Occidente, un Occidente lontano, lontanissimo, ma pur sempre figlio dell’Europa, sebbene alquanto ibrido e multiculturale.
Auckland è anche una città maori, fa più caldo che al sud e c’è lavoro. Molti dei seicentomila abitanti originari (il 14% della popolazione) si sono installati qui. E molti sono poveri. Le strade del centro, qui intorno all’ostello, ospitano diversi maori in chiaro stato di disagio.
Mi confermo in una impressione maturata da quando, un mesetto fa, sono approdata nell’isola del Nord: sempre la stessa storia, i colonizzati stanno peggio dei colonizzatori persino quaggiù, nella civile Inghilterra australe.
Da Auckland si vede il profondo legame con il resto del Pacifico, Tonga, Fiji e la Polinesia, terra di origine dei maori. Si incontrano numerosi immigrati dalle isole qui intorno. Portano le braccia e le loro arti. Stamattina al museo le opere di Robin White mi hanno parlato a lungo di questa commistione: tele meravigliose, frutto di una meticolosa collaborazione tra donne, di mani e cuori diversi.
Auckland non è una città particolarmente bella, peccato, in passato aveva lo charme di una città europea. Me ne sono fatta un’idea alla biblioteca pubblica, dove sono esposte foto d’epoca. Ma le è rimasta una caratteristica speciale. È la città della vela, la capitale mondiale della vela. Barche in legno sinuose come violini sono esposte al porto, la parte più interessante e piacevole da camminare. Finito di scrivere andrò a farmi l’ultima passeggiata al tramonto.
Oggi, dopo giorni di grigio piovoso, c’è un filo di sole e posso sperare in una striscia di colore nel cielo ostinatamente plumbeo.
La città attrae i giovani, più del più bello dei luoghi naturali che ho avuto la fortuna di visitare nel mio vagabondare. “LyLo” è l’ostello più pieno che abbia incontrato; è venerdì sera e c’è un gran via vai di arrivi e partenze che si affollano in cucina. Dovrò aspettare un poco a farmi la cena, da queste parti si mangia presto e dalle cinque sono tutti ai fornelli. Mi piace molto questa atmosfera frizzante, mi comunica gioia ed energia.
Mi sorprende Shireen con un invito a cena: o meglio a condividere il suo cibo cinese. E' malesiana, è stata lontano da suo figlio tre anni durante la pandemia a causa delle severissime politiche anticovid messe in atto dal governo neozelandese. Il lockdown più lungo e restrittivo del mondo. Adesso è finalmente tornata e abita qui temporaneamente, in attesa di trovare una casa.
Mischiamo sapori diversi e ringraziamo per quello che abbiamo ricevuto in dono oggi.
Scrive Robin White: La collaborazione è un atto di fede. E tu devi ascoltare. Ko te mahi ngatahi he mahi pono, he mahi whakarongo.
AUCKLAND. Work hard, travel harder
L'ostello in cui soggiorno a Auckland si chiama "LyLo". E' una struttura di nuova concezione che mi piace molto. Mi ricorda le cabin giapponesi. Ci lavorano cinesi, indiani, kiwi e maori, oltre a giovani di tutto il mondo.
Nuovo, pulitissimo e sistemato con una certa estetica, si trova in centro, a 5 minuti a piedi dalla stazione dei bus. Il che costituisce un'attrattiva di per sé, soprattutto zaino in spalla. Ottima qualità-prezzo per una città molto cara: 34 euro a notte in una stanza da 4. Nello spazio notte ognuno ha la sua privacy. Luci, prese, wifi, specchio, retini per gli abiti, aria condizionata. Siamo lontani anni luce dai letti a castello dove devi mettere tutto per terra.
Io dormo sopra, e sembra di stare in una stanzetta personale. Il mio zaino sta sicuro in uno scomparto chiuso proprio qui sotto (notevole: non succede mai negli ostelli). Bagni grandi e attrezzati. Cucina grande e attrezzata. Lavatrici e asciugatrici in abbondanza. C'è persino un signor bar, un ristorante e tavoli per lavorare, cosa inedita. Vedo con piacere che nell' ospitalità si stanno adeguando alle esigenze dei lavoratori da remoto, e anche dei nomadi digitali.
Ecco un luogo progettato adeguatamente per i viaggiatori di ogni età. Semplice e perfetto senza essere lussuoso.
Stamattina, la mia postazione nell'area coworking mi dice di lavorare duro e di viaggiare ancora più duro. Il monito è affisso sul muro di fronte al mio tavolo. Mi piace, associa due cose che in me si accompagnano da anni. Lo tengo come un invito per il 2023, ma lo interpreto a modo mio: lavora intensamente e viaggia ancor più intensamente.
Non è una questione quantitativa. Il lavoro come il viaggio aspira alla qualità: il valore va cercato, perseguito. Significa creatività, conoscenza, crescita, autonomia, relazioni, rispetto di se stessi e degli altri. In tutti e due i casi, nel viaggio e nel lavoro.
HARURU. Da Rosemary
In questi giorni dormiamo in una suggestiva casetta a Haruru, un piccolo villaggio vicino a un luogo turistico famoso qui nell'isola del Nord, la Baia delle isole. Domani ci aspetta un bel giro in barca.
La villetta è tenuta come nuova da una coppia anziana, molto anziana. Sono deliziosi, premurosi e direi coraggiosi ad ospitare estranei con Airbnb. Hanno cinque figli e una casa grande ormai vuota, e la aprono ai viaggiatori. Lo trovo bellissimo, in questo modo entra il mondo nella loro casa, non sono soli.
Lo fanno con disinvoltura, lei in vestaglia, lui disabile in poltrona. Scambiamo quattro chiacchere, ascoltiamo musica, giochiamo col gatto, e poi si guardano un telefilm mentre noi cuciniamo la cena usando tutte le loro cose. Frughiamo nei cassetti, tra le pentole, nel frigorifero. Ospitalità perfetta, non fanno una piega.
Un modo straordinario di vivere la vecchiaia, aperti e senza paura. Nella mia fantasia, quando mi fermerò e sarà finito il tempo di viaggiare, aprirò la mia casa ai viaggiatori. Farò entrare il mondo e mi ricorderò di Rosemary e del suo dolce marito.
CHRISTCHURCH. Ospite da una famiglia russa
Sono membro di Servas, un'associazione che si propone di promuovere la pace, la comprensione e la fratellanza fra gli esseri umani attraverso il viaggio e l'ospitalità. Famiglie e singoli sparsi in tutto il mondo costituiscono una rete meravigliosa di persone aperte e disponibili agli altri. In Nuova Zelanda ce ne sono più di cento.
Anna, Nizami e il piccolo Archie abitano in un ameno sobborgo di Christchurch, la maggiore città dell'isola del Sud. Mi accolgono nella loro casa, nuova nuova, bianca, piena di luce, con giardino ben tenuto e garage. In tutti questi giorni le ho viste da fuori scorrere lungo la strada e adesso ci entro con curiosità. La tipica casetta riflette lo stile di vita: agiato, tranquillo, appartato.
Tutto si svolge qui, hanno lo studio per lavorare da remoto e la palestra per la ginnastica. Il nostro sogno, mi dice Anna.
Si sono appena trasferiti dalla ben più affollata Auckland. Sono russi, hanno lasciato il loro paese una decina di anni fa in cerca di una vita migliore e sono arrivati fin qui. Sono radiosi e soddisfatti della loro isola. Sembrano perfetti, giovani e felici nella loro felice famiglia.
Condividiamo un frammento delle nostre esistenze, ed è già molto. L'ospitalità è lussuosa. Ho una stanza e un bagno tutti per me, deliziose colazioni, chiacchere a volontà. Mi sento a casa.
La politica non ci sfiora nemmeno per un attimo, è chiaro che vogliamo tenere la guerra fuori dai nostri discorsi. Sarebbe sconvolgente. E poi qui siamo in effetti in un posto strano, come al riparo dal mondo.
QUEENSTOWN. Solitaria e incontri
L'ampio giro itinerante nell'estremo sud mi porta a Queenstown, una tranquilla cittadina sul lago Wakatipu, immersa in uno scenario alpino di montagne e acqua trasparente. Uno straordinario puzzle di laghi incatenati l'uno all'altro.
Inizia qui il viaggio in solitaria, con tappe più lunghe e ritmi più distesi che favoriscono gli incontri.
Dopo tanto andare ho bisogno di una sosta e questo è il posto giusto. Trovo alloggio in una casa-ritiro dove si praticano yoga e meditazione. Poche camere, molta quiete, una vista mozzafiato, un bel giardino con il Buddha al centro, una cucina condivisa in cui scambiare cibo e pensieri: non potrei volere di meglio.
Le giornate scorrono lente. Ne faccio un vero ritiro e me ne sto raccolta tra la pratica e il cammino, è un po' che non mi capita. Kareen è la mia guida. Ha i capelli rosa, un simpatico accento sudafricano e un atteggiamento sinuoso da ballerina. Ci prendiamo subito e scopriamo un indole comune.
Due mondi lontanissimi, eppure. Vive nomade da un anno insegnando yoga in giro per New Zealand. E' serena, consapevole di sé, disponibile con gli altri, allegra e distaccata quanto basta. La seguo volentieri nelle sue mattane, fino a tuffarmi con lei nel lago ghiacciato.
La osservo. Mi piacciono le sue qualità, la sua sicurezza, la premura non invadente. Vorrei avere la sua grazia. Mi fa da specchio in un momento in cui sento di dover ritoccare un poco la mia identità. Una verifica, un reset, ogni tanto ci vuole. Butto un paio di cose che non desidero più indossare e do il via al viaggio interiore che accompagnerà i miei passi in questa terra lontana.
C'è sempre un dentro e un fuori del viaggio, un percorso nascosto che segue l'altro in parallelo, a volte in piena sintonia, a volte in aperta contraddizione. E questo può dire molto di noi. Ho intenzione di ascoltare tutto con attenzione, senza discriminare, accogliendo ciò che c'è. Una pratica così difficile ma così potente che ne vale la pena.
Salutandoci, mi regala qualcosa di suo, colorato, mi sta a pennello. Lo metto subito, come si faceva da bambini, per inaugurare il mio primo viaggio in bus che mi porta dall'altra parte dell'isola, a Christchurch.
Mai fidarsi di chi privilegia sempre la macchina. I trasporti sono organizzati, hanno ottimi prezzi e arrivano ovunque.
PAPATOTARA. Costa ovest
Piove. Nell’isola meridionale della Nuova Zelanda, dove mi trovo da una decina di giorni, piove a tratti e fa ancora piuttosto freschino nonostante la stagione primaverile – giacca a vento, cappello di lana, calzamaglia, per intenderci. Siamo in effetti a sud, 47° all’Antartico, la stessa latitudine di Milano ma dall’altra parte. E sicuramente il Pacifico fa la differenza.
Il passaggio delle nuvole e l’intermittenza di chiaro scuro sole pioggia fanno un cielo cangiante, mutevole. Il tramonto, sebbene non se ne veda mai uno completo, arriva molto tardi, verso le nove e mezzo. Stasera godo l’imbrunire dalla grande vetrata della stanza in cui sono alloggiata a Papatotara, costa ovest: una vista spettacolare sull’oceano battuto dal vento.
Tutta questa luce, che sorge prima delle cinque, è una vera sorpresa e consente giornate lunghe e piene.
Questa prima parte del viaggio è itinerante, in macchina. Un tipo di viaggio che non facevo da tempo, non guidando e usando io solitamente altri mezzi. Ma è interessante e adeguato a un territorio che nasconde angoli di terra e di mare meravigliosi e difficilmente raggiungibili altrimenti.
Nell’immaginario, almeno nel mio, Nuova Zelanda è sinonimo di remoto, esotico, lontano. Lo è, in effetti, ma in una forma particolare perché l’Europa si sente tantissimo, come in filigrana. C’è anzi un certo orgoglio nei kiwi – così si chiamano i bianchi neozelandesi, prendendo il nome da un uccello quasi estinto – delle proprie origini irlandesi o scozzesi. La maggior parte ha antenati da quelle parti, che nell’Ottocento si sono installati e in quattro e quattr’otto hanno letteralmente costruito un intero paese.
Che non esisteva: esisteva Aoteraoa, la lunga nuvola bianca, come la chiamavano i maori, la Nuova Zelanda l’hanno fatta gli olandesi, i britannici, gli americani.
Ciò che fa più impressione è la vera e propria sostituzione della natura originaria con una del tutto nuova, importata. Un danno enorme di perdita di una straordinaria biodiversità animale e vegetale, che le nuove generazioni stanno tentando di riparare con una politica severa di conservazione delle aree di foresta rimaste e di ripristino di quelle cancellate. All’arrivo, in aeroporto ti controllano le suole delle scarpe per evitare semi stranieri.
Encomiabile, ma non basterà.
Il risultato è un luogo interamente modellato dall’uomo - dall’uomo bianco, è il caso di dire - ordinato e organizzato in vaste farm, con chilometri di pascoli bovini e ovini (qui si fa la lana Amerino più apprezzata e venduta del mondo) interrotti da boschi e distese di ginestre in fiore, stagni e paludi popolati di uccelli. Una Svizzera australe con scenografiche incursioni di selvatico: lunghe spiagge bianche in cui non è difficile incontrare leoni marini e uccelli rari, scogliere di pinguini, bush di antichi kauri e alberi di felci. Camminarci in mezzo è uno spettacolo: santuari in cui entrare con rispetto per non disturbare la vita che lotta per non estinguersi.
Sono fortunati i neozelandesi ad abitare qui, 5 milioni di persone su due isole grandi come l’Italia. Ma non è soltanto una questione di numeri e di spazio a disposizione. Questo è il posto più vivibile che abbia mai visto. Civilissimo, sicuro, pulito – non si incontra una microplastica –, costellato di villaggi di villette in legno e tranquille cittadine con tutti i servizi. Tutto camminabile. Sono migliaia i vialetti, le stradine, i sentieri, brevissimi, medi, lunghissimi, non devi nemmeno cercarli, ti vengono incontro ovunque, in città, in campagna, in montagna, lungo la costa. Non sembra vero.
Kia ora! Abbi salute, abbi vita, è il saluto maori.
E ve lo rivolgo.
Cultura, miti, nomi originari sopravvivono nella lingua – le scritte sono sempre doppie, inglese e maori. Un politically correct estremo, tipico degli anglosassoni, che ancora non so decifrare. Nasconde una reale integrazione o è pura facciata? Troppo poco che son qui per rispondere. È una questione delicata che esige più contatto. Vedremo.