Camminare con i piedi e con la testa
Mi piace perdermi nei piedi che vanno da soli come un meccanismo senza fine, e nella testa, dimenticando la fatica del corpo che avanza. Post scritto nel dicembre 2020.
La Lunga marcia per l’Aquila, 2013. Dopo la pioggia torrenziale si cammina così.
Una decina di anni fa, ho cominciato a infilare una serie di cammini, il primo è stato Santiago, una specie di battesimo dell’andare con le mie forze per le strade del mondo. Ne sono seguiti di molto belli, nei luoghi terremotati del centro Italia, cammini “civili”, per così dire; e poi ancora lungo la Francigena e al sud, tra Martina Franca e Matera. Speciale, nel 2019, il cammino degli ottantotto templi sull’isola di Shikoku: qualche tappa di una spiritualità antichissima che ha inaugurato il mio viaggio in Giappone.
Quando ho iniziato ad appassionarmi a questi percorsi ancora lavoravo stabilmente a Milano, e si trattava di parentesi, vacanze estive o invernali. Man mano che la vita ha preso un andamento più dinamico – prima con il pendolarismo tra la città e l’Argentario e poi con lo sgancio dal posto fisso – anche il cammino è cambiato, diventando in un certo senso organico alle mie giornate, un elemento base. Un atto naturale che non devo più organizzare.
Uso i miei piedi come principale mezzo di locomozione in tutto il mondo, non ho mai amato quelli meccanici, dalla bici all’auto. Non ci so andare, mi mettono a disagio, la velocità mi spaventa. Mi piace camminare partendo da dove sono, ovunque, nella città, in un bosco, bordo mare, non seleziono. Cammino per fare le cose pratiche, per prendere le decisioni, per placare l’inquietudine, per guardare dentro e smuovere ciò che non vuole uscire. Per respirare lentamente la bellezza. Cammino per conoscere me stessa, e i luoghi.
Cammino da sola in perfetto silenzio, a chiacchera con gli amici, ascoltando una lezione di filosofia. Cammino pianissimo, in meditazione, oppure veloce, per sfogare le gambe, al passo con gli altri, per stare insieme. Cammino quando sono triste per trovare la pace, e quando sono felice per non trattenere la gioia.
Sulla strada solitaria mi concentro istintivamente sulla pianta dei piedi, per ancorarmi al terreno e sentirne il conforto. Sul sentiero ripido è la testa a guidarmi con estrema precisione, e a spingermi su quando le anche sono stremate. In pianura, mi piace perdermi nei piedi che vanno da soli come un meccanismo senza fine, e nella testa, dimenticando la fatica del corpo che avanza.
Ieri, al semaforo, un uomo dal portamento distinto e di un’età indefinibile passava tra le macchine a vendere fazzolettini di carta. Non riuscivo a non guardarlo, l’andatura lenta, l’espressione dolce del viso mediorientale. Le scarpe sgualcite mi hanno fatto pensare ai suoi passi, così diversi dai miei. Chissà quanti e da quanto lontano. Chi attraversa la rotta balcanica o il deserto cammina anche tre anni per arrivare da noi. Gli sono andata incontro e ho acquistato un pacchetto, era tutto ciò che potevo fare in quel momento.
Il cammino può essere fuga, sopravvivenza, l’unica possibilità.