Mi chiedo perché Gaza ci è entrata così dentro. Sta scavando un solco, un solco di orrore ma anche di speranza. Due sentimenti così opposti e intensi che si condensano qui. Sono entrambi nel mio cuore e nel cuore di moltissimi, forse come non mai.
Mi viene l’immagine che Gaza sia uno specchio del mondo. E’ molto di più di una guerra. E’ la rappresentazione macroscopica, insostenibile e intollerabile, di una ingiustizia profonda, di un divario incolmabile, di un odio che semina odio, della miseria e della distruzione di un popolo. L’immagine vivida di tutta la potenza degli eserciti e degli Stati e di tutta l’impotenza degli innocenti, di ognuno di noi di fronte alla violenza cieca della sopraffazione e della conquista.
Gaza non è lontana, ci riguarda molto da vicino come esseri umani.
In quella terra si sta perpetrando deliberatamente la distruzione di un popolo, di una civiltà. In due anni di guerra impari, di uccisioni quotidiane di bambini, giornalisti, medici, uomini e donne in fila per il pane, ogni giustificazione è svanita in un massacro che non si ferma più. Ogni politica, ogni regola, ogni tregua, ogni parola ragionevole è saltata.
Gaza segna la distruzione di uno scenario geopolitico fondato sul diritto. A Gaza sono finiti i diritti umani, il concetto stesso di un ordine internazionale. E’ la fine di un mondo, che non ci piaceva, ma che aveva pur sempre qualche regola per non autodistruggersi.
Non è un ritorno indietro a una situazione che credevamo non potesse più ripresentarsi. Ciò che è drammatico è che Gaza rappresenta il mondo nuovo in cui abitiamo oggi: un homo homini lupus globale.
L’orrore, oltre che umanitario, è politico. Ancor più agghiacciante dei raid israeliani sui mercati, le scuole e gli ospedali è il balbettio della comunità internazionale. O forse non ne resta più niente, frantumata tra sostegno allo sterminio, indifferenza, assenza di iniziative adeguate alla gravità del momento.
Guardando in casa nostra, diventa sempre più insostenibile la politica dei due pesi e due misure che l’Ue applica nei confronti del conflitto russo-ucraino e di quello mediorientale. E questa insostenibilità genera in noi grande rabbia, sfiducia, distacco dalle istituzioni, sentimenti pericolosissimi che continueranno a minare la nostra convivenza ben oltre i conflitti.
Non si riesce più a pronunciare la parola “pace” quando si parla di Gaza. La pace presuppone accordi, trattati, due interlocutori che si riconoscono, un progetto, un’idea di futuro. Ma niente di tutto questo può nascere da quelle macerie. Quando tutto sarà raso al suolo, resterà soltanto un odio devastante. Il resto è retorica che serve soltanto alle nostre coscienze. Ed è in questo vuoto che entra il cinismo dell’economia, coi suoi resort costruiti sul sangue.
Dall’orrore di Gaza si sta affacciando un’altra parola che forse avevamo dimenticato: speranza. La Global Sumud Flottiglia - dove sumud significa in arabo “resistenza, perseveranza” - ne è una immagine plastica. Un’azione che rompe completamente gli schemi, scarta rispetto alla violenza, e risponde all’orrore con una inedita forma di resistenza umanitaria, basata sulla solidarietà, l’aiuto concreto, l’impegno in prima persona di uomini e donne decisi a non accettare più quello che sta accadendo.
A bordo delle navi che in questi giorni tentano di raggiungere la spiaggia di Gaza, superando il blocco imposto da Israele sulla Striscia, persone di tutte le nazionalità hanno deciso di mettere in gioco i propri corpi, e forse anche le proprie vite perché la preoccupazione, inutile nasconderlo, è altissima. Ma si fa anche di più: si crea una marea montante di consapevolezza, di coscienza civile. Chi sta a casa non è passivo, ma accompagna chi è in mare con il proprio cuore.
Per la prima volta la speranza si è trasformata in un atto politico, di là degli esiti a cui questa operazione può portare. E’ una speranza attiva che può essere soltanto collettiva. Altrimenti rimane un ingenuo auspicio che non muove nulla e che dopo un po’ svanisce. E’ uno stato d’animo che funziona come uno straordinario motore se si riesce a coltivare e praticare insieme agli altri. E sta succedendo.
Oggi essere portatori di speranza significa opporsi alla disumanità imperante: culturale, sociale, economica, politica. Significa essere custodi dell’umanità, non soccombere, non adeguarsi, non abituarsi all’orrore quotidiano delle guerre che filtrano ogni minuto nei nostri cellulari.
Significa non essere spettatori inermi, divisi, impauriti, ma soggetti che cominciano a provare a immaginare come muoversi, come resistere, e soprattutto come condividere la propria resistenza. E’ già molto.