In solitaria alle isole Canarie
El Hierro, La Gomera, La Palma. Tutti i post del viaggio, ottobre-dicembre 2020.
Nuvole e vulcani, il paesaggio incantato delle isole Canarie.
Pensieri Nomadi. El Hierro
Veduta di Valverde.
Valverde, fondata nel XV secolo all'epoca della conquista, è animata da un'atmosfera intima e antica. Una città-campagna: appena fuori dal centro storico, si cammina tra piccoli orti e giardini di cactus e terra nera precipitata dai vulcani. Il sole è caldo e i panorami tersi. L’oceano si vede dall’alto e tutto intorno.
El Hierro è un’isola remota, in questo momento particolare di pandemia ancor meno frequentata dal turismo rispetto alle sorelle maggiori dell’arcipelago. L’arrivo alla sera in traghetto mi dà la misura. Solo io, a piedi col mio zaino nel buio del porto.
Viaggiando, mi ritrovo spesso in posti come questo. Cerco il più lontano, il più nascosto, il più piccolo, il più vuoto. Nella mia personale e disparata geografia ne ho una collezione.
Non pianifico e viaggio senza alcuna guida. Imparo il luogo strada facendo, dalla mia curiosità e dai suoi abitanti. Questo andare libero dai programmi è la condizione di un contatto profondo col mondo che altrimenti non avrei. Non so se si tratti di una fortuna, certamente è una qualità che coltivo da anni: saper vivere nell’apertura, nell’occasione, non aver paura di lasciarsi portare dalle cose, dagli incontri, dai luoghi.
Ed eccomi oggi qui.
La vita in movimento di questi anni ha reso nomadi anche i miei pensieri. Meno forti, meno strutturati, ma più flessibili, e forse più lievi. Mi accorgo di uscir continuamente fuori dal seminato. Non vedo però altro modo oggi - rubo le parole al grande Cartesio - di "costruire su un fondamento tutto mio".
Le solitarie. El Hierro
Passeggiando tra i ginepri piegati dal vento.
Coltivo la solitudine, è il mio giardino privato. Lì mi siedo a riposare, mi ritrovo, ricompongo i pezzi. Mi piace disperdermi nel mondo, ma è nella solitudine che mi fortifico.
In questa condizione attingo a una pienezza altrimenti insperata. E’ la pienezza del ritmo personale, spirituale e naturale ad un tempo: lo sento affiorare in superfice come un fiume carsico, mi immergo e sono felice.
Tutti ce lo abbiamo il ritmo, ricoperto da una quantità di incombenze, pensieri, oggetti. Ho scavato a lungo per trovarlo. Il mio era nascostissimo; travolta dalle mille cose da fare, per anni sono rimasta assente, sorda alle sue voci timide. Una volta dissotterrato, non posso più fare a meno di seguirne il flusso. Sono disposta a sacrificare qualcosa per questo. Scegliere di farsi interrompere dalle relazioni, dalle parole, è un privilegio non scontato.
Ricerco e ascolto il ritmo in particolare nel viaggio. Per questo amo le solitarie, Svezia, Sardegna, Giappone, oggi Canarie. Esperienze forti, molto diverse tra loro, ma accomunate dall'assenza di filtri. Le giornate sono nelle mie mani, le scelte, le occasioni da cogliere al volo, le emozioni, a volte i timori. Non che voglia tenere tutto per me, nient’affatto. E' proprio da quello spazio intimo e vitale che si dipartono le più intense e sottili connessioni con gli affetti lontani e nei contatti occasionali. Non sempre la prossimità è condivisione autentica, anzi, può generare un baratro infinito.
La solitudine non esclusiva è libertà, fonte di vita. E’ il gesto della mano che si chiude per poi riaprirsi con il palmo ben largo.
Bellissimi gli incontri di viaggio. Un'ora, una serata, ci si scambia tutto, forse perché finisce. Alcuni meravigliosi sono nei miei taccuini e nel mio cuore.
Altra cosa è l’isolamento, il togliersi, segregarsi dal mondo, averne paura. Provo molta compassione per chi lo subisce, raramente è una scelta. Sento forte la barriera del suo dolore.
Sarò lichene. El Hierro
Licheni sulla rocca vulcanica.
Cammino tra i vulcani del Hierro ed entro in contatto con un mondo naturale che ha qualcosa di straordinario. L'isola è un particolare punto di osservazione: giovanissima rispetto alle altre sorelle canarie, espone la sua evoluzione in modo più vivido, visibile. Sorprendente perché milioni di anni sono passati, eppure.
Capisco che la lava non è deserto, bensì il suo contrario: è genesi di vita. L'energia che proviene dalle rocce su cui metto i piedi è quella fertilissima dell'origine, non della fine, e si sente. Il corpo la sente.
Il primo che si attacca è il lichene. Aderente come una sottile crosta o fiorito di microscopiche foglie, colora la roccia nera di macchie gialle, rosse, verdi, grigie. Lo osservo, quasi non si direbbe un vegetale, ma lo è eccome: è doppio. Due organismi in uno, diversissimi tra loro - un'alga e un fungo - che cooperano in modo perfetto per adattarsi e riprodursi. Separati non ce la farebbero.
L'insolita coppia ama gli estremi: è pioniera, e va per prima ad abitare la lava. La semplicità è la forza che la rende capace di installarsi in tutti gli ambienti; nei più difficili, impervi, refrattari. Tranne uno, le città inquinate. Non ci va, e se ci capita muore.
Sulle lastre raffreddate i licheni compiono un invisibile, indispensabile lavoro: preparano il terreno. Per un tempo infinito, infinito per noi che non possiamo concepirlo, lentamente disgregano guglie e immense colate producendo terra fertile: la base su cui potranno insediarsi altre vite. Gli alberi giganteschi che oggi formano le foreste sul fondo dei crateri devono ai minuscoli licheni la loro possibilità.
Alcuni anni fa Mario Brunello registrò una versione particolare delle sonate di Bach per violoncello solo. Aveva provato a suonarle come se fosse la prima volta, allo stato puro, scrostando via le mille interpretazioni che nel tempo si sono stratificate sulla partitura originale. I licheni della musica, le definì il maestro. La base, l'inizio sublime senza il quale non si dà altro.
Non credo nella reincarnazione ma mi piacerebbe poter cedere, nel ciclo delle nascite e delle morti, una parte della mia materia organica a questi piccoli fondamenti. Se però mi venisse data un'altra possibilità, spererei la forma del lichene. Giallo, leggerissimo, tenace, saldamente agganciato alla roccia.
Accoppiato per natura, generoso di vita verso gli altri esseri.
Il bosco delle nuvole. La Gomera
La foresta del Garajonay.
La foresta del Garajonay occupa la parte centrale dell'isola della Gomera. Il bosque encantado, come dicono i simpatici spagnoli che camminano con me. È un rarissimo esempio di laurisilva, un ecosistema che conserva gli alberi di alloro che ricoprivano il mondo milioni di anni fa. Si è formato dal particolare transito degli alisei: non portano pioggia ma nubi, e le piante hanno imparato a nutrirsi della loro umidità. Soltanto umidità.
Entrando in questa selva verdissima si torna indietro, in un tempo in cui la Terra era silenziosa e gli umani non c'erano. L' origine. Mi hanno fatto lo stesso effetto i vulcani. La lava è qui la base della vita, emerge ben visibile nelle sue forme primordiali, contorte, strapiombanti. Tutto è antichissimo alla Gomera: dieci milioni di anni si sono depositati nella terra fertile, nella vegetazione ricca, nella forma tonda. Mi sento solida qui, coi piedi ben piantati nel suolo liscio e plasmato dal vento, dal mare.
In quest'isola laboratorio l'evoluzione è in corso, si può toccare. Darwin lo sapeva, ma non poté sbarcarvi a causa di un'eruzione in corso nella vicina Tenerife. Avrebbe visto mille specie di felci, e muschi e licheni, arbusti di erica e mirto che, in cerca di luce, diventano alberi di dieci metri, infinite varianti di alloro nei versanti nord e sud della montagna. Ogni anno gli scienziati scoprono sempre nuovi invertebrati abitanti del bosco.
Non si cammina mai soltanto nella natura, ma anche sempre nella storia. Siamo parte di entrambe, del loro incessante mutare. Ma la natura ha un'innata, irrevocabile intelligenza che la storia non ha.
Vita in viaggio. La Gomera
L’oceano della Gomera.
Parto per le isole Canarie, buona vacanza, mi dicono. Ma no, non è questo. Sto cercando un'altra strada che vorrei chiamare vita in viaggio. E' un esperimento in corso da quando ho abbandonato il posto fisso per l'autonomia, cinque anni fa. Lavoro e scrittura vengono con me, nello zaino.
La vacanza sin dal suo etimo ha a che fare con la sospensione delle abituali occupazioni, che rimangono scoperte, vuote. Le mie, al contrario, si riempiono nel movimento, diventano più intense e concentrate. Il cambio di scenario mi aiuta, fa respirare la mente e distende il corpo.
Perseguo l'idea di una quotidianità mista, lavoro, libertà, creatività: i compartimenti stagni mi sembrano cosa superata, di un'epoca lontana. Per tentativi progressivi provo a ricomporre tempi e attività, non solo per renderli armonici ma anche più proficui, addirittura più produttivi. Sento quando accade, è un circuito virtuoso che nasce da una conduzione più fluida dell'esistenza. E' difficile, richiede impegno e anche disciplina, non c'è dubbio, ma la composizione del puzzle dà una certa soddisfazione. Intravedo un senso, una direzione di vita che cercavo, significativa.
Agisco in profondità piuttosto che in estensione. Meno cose, meno impegni. Faccio piuttosto spazio alle priorità. Mi rendo conto che tutto non ci sta, e mi adeguo. E' arrivato il momento di lasciare andare. Sto provando a programmare il meno possibile, lo stretto necessario per il lavoro, gli affetti. Così nel viaggio.
Da tempo ho lasciato la guida: vedere tutto, visitare, ottimizzare. Il turismo non è che un sorvolo, inibisce l'esperienza, impedisce il contatto con le persone, i luoghi. Al contrario, mi lascio guidare dai miei passi, dalla curiosità, dai consigli, dagli incontri. Rinuncio a un monumento, a un'idea che mi ero fatta; mi immergo in una particolare atmosfera. Poi è quella che ricorderò tornando a casa.
Cerco posti accoglienti in cui sostare per qualche tempo. In questi giorni sono a San Sebastian de la Gomera, una cittadina tranquilla, ancor più per effetto del covid, raccolta ad anfiteatro intorno al porto. È famosa, dalla sua spiaggia hanno preso l' Atlantico le caravelle di Cristóbal Cólon, come lo chiamano da queste parti.
Scelgo con cura l'alloggio, un appartamentino, un ostello, l'interno mi interessa tanto quanto l'esterno. Qui abito in una casita sulla collina, il balcone in legno tipico delle case canarie domina la baia. Ci sto bene, cucino, scrivo, lavoro, lavo i panni, faccio ginnastica, ascolto musica e libri, sento gli amici. Cammino, esploro i dintorni a piedi o in bus.
Il ritmo è lento; mi piace stare, osservare. Condividere un frammento di vita altra. Questo mi interessa: l'esperienza, non la vacanza. Vivere diverse vite oltre a quella che conosco: il sogno che coltivavo negli anni del lavoro fisso. Allora, mi alzavo alla mattina e sapevo che cosa aspettarmi, oggi scoperta e sorpresa sono quotidianità.
Viaggio pandemico. La Palma
Veduta di Tazacorte.
Tazacorte è un pueblo antico sulla costa occidentale dell'isola della Palma. Infilato nella montagna di lava, degrada verso la costa e si perde in un bananeto color smeraldo. Qui le banane fanno l'economia, fin dove si può, sopra e sotto, i palmeros ricavano terrazzi per le piantagioni. Guardo le balconate verdi di foglie, altissime, a picco sul mare, e mi chiedo per quanto tempo la roccia riuscirà a sostenerle. Immobile da milioni di anni, speriamo che non sia l'uomo a sgretolarla.
Capisco perché le banane crescono volentieri a Tazacorte. Il clima è soleggiato per molti giorni all’anno, la baia riparata dai venti. Faccio fatica a lasciare questo posto, la sabbia nera, calda e pulita al tocco, il porticciolo, i cieli tersi. È qualche giorno che rimando. Ma forse c'è dell'altro.
Sono in un'oasi, al riparo della pandemia. Dal mio punto di osservazione non la vedo, se non fosse per le mascarille che gli abitanti indossano diligentemente.
In un certo senso l'avverto per differenza. Poche persone, contagi nulli, in questi borghi lontani da tutto la realtà è come sospesa. Quando tornerò l'impatto sarà ancor più duro.
A ottobre, quando sono partita, l'onda non ci aveva ancora sommersi. La sentivo avvicinarsi e mi sono sorpresa in uno stato d'animo di fuga. Biglietto di sola andata, meglio mettere il pc nello zaino. Non sapevo quanto sarei stata via.
Strano viaggio, in sordina. Dopo aver salutato il mio marinaio in partenza per l'oceano, proseguo quasi senza deciderlo. Una meta che forse non avrei scelto, ma le isole mi sorprendono, mi appassiono strada facendo. Entro sempre di più nello strano viaggio, viaggio pandemico.
Bellissimo e terribile ad un tempo. Sono pronta alla solitaria ma questa volta è radicale. Diciotto milioni di turisti all'anno, e non c'è nessuno. Spiagge, passeggiate, piccoli paesi vuoti. Ostelli, traghetti, aeroporti vuoti.
Sulle più piccole tra le isole canarie - El Hierro, Gomera, La Palma - mi ritrovo in luoghi incantati alla fine del mondo che non posso neppure immaginare ricoperti di esseri umani. Li vedo nella loro purezza, lava, vento, oceano.
Certo, sono magnifici, ma scarnificati. Non è questo che vogliamo, nemmeno noi, puristi della natura. Chissà se la giusta via di mezzo, somma virtù per gli antichi greci, sarà del mondo nuovo in cui ci ritroveremo. Perché pandemos finirà, questo è certo.
Cieli. La Palma
L'Osservatorio astrofisico internazionale del Roque de Los Muchachos.
Mi sono tenuta questa prelibatezza per gli ultimi giorni. Non c'è modo di raggiungerlo se non in macchina, il bus fin lassù certo non arriva. Il cammino non è alla portata delle mie vertigini, troppo ripido. Chiedo a un taxista se mi ci porta per un prezzo ragionevole, mi fa subito una buona impressione, è gentile, disponibile, qualità molto diffuse tra i palmeri del resto. Il mio spagnolo è sufficiente, ci capiamo. Andiamo, mi dice.
Partiamo dal mare per arrivare in cima: 2400 metri. La strada sale contorta sulla montagna di lava. Lo scenario cambia a ogni curva, pini, felci, cactus. Roccia nera, gialla, rossa, grigia. Ci fermiamo a guardare l'incanto dei vulcani immersi nella mar de nubes, come la chiamano qui. Loro lo sanno che il mare è femmina, in terra come in cielo. L'aria fine, il silenzio totale. Li respiriamo, entrambi.
Buchiamo la coltre bianca e ci sorprende un bel sole caldo, è la nostra buena suerte, rido col mio conductor. La stagione volge all' inverno e il clima in queste alture può essere estremo.
Compaiono le prime astronavi. Nascoste in cupole bianche o composte di mille specchi in grado di catturare le macchie solari, brillano contro un azzurro spettacolare, trasparente, rarefatto. E' il motivo per cui sono qui.
L'Osservatorio astrofisico internazionale del Roque de Los Muchachos sorge sopra le nuvole, nel punto più alto della Palma. Su questo fazzoletto di isola il cielo si può leggere come in altri pochi posti al mondo, Sudafrica, Cile. C'è anche il nostro raffinatissimo “Galileo”: ha già scoperto ben due pianeti extrasolari delle dimensioni della Terra.
Le forme pure dei telescopi poggiano sul bordo di un impressionante cratere vulcanico spento da milioni di anni. Tecnologia e natura, natura ancestrale, selvaggia. Bellezze così lontane eppure perfettamente armoniche allo sguardo. Mi chiedo se si scambino messaggi misteriosi, in fondo hanno bisogno l'una dell'altra.
Vorrei crederlo, sono la nostra unica salvezza.
Tramonto sul vulcano.