50 giorni in Nuova Zelanda. Impressioni da Papatotara
Costa ovest, isola del Sud (novembre 2022).
Mucche e pecore sono le protagoniste di molti paesaggi neozelandesi, dove le foreste e la natura originaria hanno lasciato il posto a grandi pascoli, quando non alle vigne o a estese piantagioni del frutto del kiwi. L’impressione è che, a parte alcuni meravigliosi santuari, questa civile Inghilterra del Pacifico sia stata trasformata in una grande fabbrica, con ogni centimetro quadrato di terra coltivato o comunque manipolato dall’uomo (bianco) per renderla utile.
Piove. Nell’isola meridionale della Nuova Zelanda, dove mi trovo da una decina di giorni, piove a tratti e fa ancora piuttosto freschino nonostante la stagione primaverile – giacca a vento, cappello di lana, calzamaglia, per intenderci. Siamo in effetti a sud, 47° all’Antartico, la stessa latitudine di Milano ma dall’altra parte. E sicuramente il Pacifico fa la differenza.
Il passaggio delle nuvole e l’intermittenza di chiaro scuro sole pioggia fanno un cielo cangiante, mutevole. Il tramonto, sebbene non se ne veda mai uno completo, arriva molto tardi, verso le nove e mezzo. Stasera godo l’imbrunire dalla grande vetrata della stanza in cui sono alloggiata a Papatotara, costa ovest: una vista spettacolare sull’oceano battuto dal vento.
Tutta questa luce, che sorge prima delle cinque, è una vera sorpresa e consente giornate lunghe e piene.
Questa prima parte del viaggio è itinerante, in macchina. Un tipo di viaggio che non facevo da tempo, non guidando e usando io solitamente altri mezzi. Ma è interessante e adeguato a un territorio che nasconde angoli di terra e di mare meravigliosi e difficilmente raggiungibili altrimenti.
Esotico?
Nell’immaginario, almeno nel mio, Nuova Zelanda è sinonimo di remoto, esotico, lontano. Lo è, in effetti, ma in una forma particolare perché l’Europa si sente tantissimo, come in filigrana. C’è anzi un certo orgoglio nei kiwi – così si chiamano i bianchi neozelandesi, prendendo il nome da un uccello quasi estinto – delle proprie origini irlandesi o scozzesi. La maggior parte ha antenati da quelle parti, che nell’Ottocento si sono installati e in quattro e quattr’otto hanno letteralmente costruito un intero paese.
Che non esisteva: esisteva Aoteraoa, la lunga nuvola bianca, come la chiamavano i maori, la Nuova Zelanda l’hanno fatta gli olandesi, i britannici, gli americani.
Ciò che fa più impressione è la vera e propria sostituzione della natura originaria con una del tutto nuova, importata. Un danno enorme di perdita di una straordinaria biodiversità animale e vegetale, che le nuove generazioni stanno tentando di riparare con una politica severa di conservazione delle aree di foresta rimaste e di ripristino di quelle cancellate.
All’arrivo, in aeroporto ti controllano le suole delle scarpe per evitare semi stranieri. Encomiabile, ma non basterà.
Il risultato è un luogo interamente modellato dall’uomo - dall’uomo bianco, è il caso di dire - ordinato e organizzato in vaste farm, con chilometri di pascoli bovini e ovini (qui si fa la lana Amerino più apprezzata e venduta del mondo) interrotti da boschi e distese di ginestre in fiore, stagni e paludi popolati di uccelli.
Una Svizzera australe con scenografiche incursioni di selvatico: lunghe spiagge bianche in cui non è difficile incontrare leoni marini e uccelli rari, scogliere di pinguini, bush di antichi kauri e alberi di felci. Camminarci in mezzo è uno spettacolo: santuari in cui entrare con rispetto per non disturbare la vita che lotta per non estinguersi.
Sono fortunati i neozelandesi ad abitare qui, 5 milioni di persone su due isole grandi come l’Italia. Ma non è soltanto una questione di numeri e di spazio a disposizione. Questo è il posto più vivibile che abbia mai visto. Civilissimo, sicuro, pulito – non si incontra una microplastica –, costellato di villaggi di villette in legno e tranquille cittadine con tutti i servizi. Tutto camminabile. Sono migliaia i vialetti, le stradine, i sentieri, brevissimi, medi, lunghissimi, non devi nemmeno cercarli, ti vengono incontro ovunque, in città, in campagna, in montagna, lungo la costa.
Non sembra vero, eppure credo che non ci vivrei.
Kia ora! Abbi salute, abbi vita, è il saluto maori.
E te lo rivolgo.
Cultura, miti, nomi originari sopravvivono nella lingua – le scritte sono sempre doppie, inglese e maori. Un politically correct estremo, tipico degli anglosassoni, che mi pare tuttavia nascondere una integrazione più di facciata che reale. Oltre alla sostituzione della natura, c’è stata una sostituzione della civiltà.
I maori sono marginali, come i boschi.
Questi sono i Pensieri Nomadi. Nella newsletter settimanale condivido la mia esperienza: il cambiamento di vita, la scelta nomade, i valori che mi ispirano, la bellezza dei viaggi e degli incontri.