La foto viene dal web e non reca nessuna indicazione. Io non so chi l’abbia scattata, se sia vera o falsa, un’invenzione dell’AI. Ma è meravigliosa, ed esprime tutto quel che sento e auspico.
In questo tempo di infinita follia, mi girano dentro istantanee di un viaggio che ho compiuto qualche anno fa in quella terra tormentata. Avrei voluto ritornarci ma non è più stato possibile per il susseguirsi implacabile di conflitti piccoli e grandi.
La guerra in Palestina è permanente anche quando noi non la vediamo. È un fuoco carsico, che compare e scompare ma non si spegne mai. Lì lo tocchi con mano ad ogni passo, in ogni parola delle persone con cui vieni a contatto - qui da noi soltanto quando tutto periodicamente deflagra, e forse nemmeno.
Ma come possiamo soltanto immaginare quello che sta succedendo laggiù? Si, lo vediamo alla televisione e sui social, ascoltiamo le notizie, ma immaginare no, non è possibile.
Continuo a chiedermi che cosa sarà di quel mondo perso, della sua gente. Di quei volti che ho incrociato.
Assistiamo a una catastrofe da più di un anno. Forse la pace verrà, ma rimarrà la violenza più brutale, quella che si deposita nei cuori delle persone e che non va più via, non va più via per generazioni.
Ed è proprio la dilaniante separazione tra esseri umani la cosa che più mi ha scioccato viaggiando in Israele e Palestina: noi e loro, di qui e di là, l’occupante e l’occupato, il nemico arabo e il nemico ebreo. Non c’è scampo al dramma davanti a questa ferita che non smette di sanguinare.
Benvenuta e benvenuto tra i Pensieri Nomadi. Questo è il blog in cui racconto la mia vita nomade e quello che mi insegna. Se non sei ancora iscritta, puoi farlo ora. Grazie 🙏
Il controllo
Sono stata in viaggio laggiù in un momento di relativa pace, la pace vera non c’è mai, non ci può essere. Ti accorgi subito, all’aeroporto, che stai entrando in una zona caldissima, dove c’è sempre allerta e la normalità è un costante stato di tensione, inconcepibile per noi che stiamo in Europa.
I voli per Israele sono separati dagli altri. Il controllo dei bagagli è meticolosissimo, ma questo è il meno. Io e il mio compagno siamo viaggiatori indipendenti, a differenza di altri che sono in gruppo, e ci attende una lunga serie di domande sui propositi della nostra visita, la preparazione dello zaino, le destinazioni, le sistemazioni. L’iter è lungo: le domande ci vengono ripetute due volte per testare la coerenza delle risposte. Sono sorpresa e tendo a confondermi, ma preferisco evitare altre domande.
Davanti a me ho una bella ragazza, giovane, con lunghi capelli castani. Ha un’aria gentile ma i suoi occhi sono difficili da sostenere: puntati dritti nei miei, capisco che sono addestrati a scandagliare la più minima esitazione nel mio comportamento. La sua impassibilità mi agita, e quando il colloquio è finalmente finito sono tutta sudata.
Sono una semplice turista che non ha niente da nascondere, eppure ho avuto paura.
Gerusalemme
Forse non c’è città più incredibile al mondo. Un intrico di culture, religioni e civiltà che esiste soltanto lì, in un condensato spazio-temporale che non ha eguali. Ci sono tutti: i cattolici, gli armeni, i greci ortodossi, la chiesa cristiana etiope e quella siriana, i frati francescani, i preti copti, i rabbini, gli imam. Un luogo sacro dentro nell’altro, i quartieri della città uno dentro nell’altro, i popoli uno dentro nell’altro. E i militari controllano tutti i passaggi.
Quando arrivo a visitarlo, il Muro del pianto è gremito di fedeli che dondolano avanti e indietro recitando versi della Torah. Vado vicino e sto lì un po’ perché cerco di sentire che cosa mi dice quel gesto. Lo faccio sempre, non sono credente ma amo molto la spiritualità dei popoli e provo a immedesimarmi nelle diverse forme che assume. C’è la tradizione di infilare bigliettini nelle feritoie del muro: metto anche il mio e lo consegno alla preghiera.
Il luogo simbolo del conflitto sta qui sopra e ha due nomi che riflettono tutto il contrasto: la Spianata delle moschee o Monte del tempio, un posto sacro tanto agli ebrei quanto ai musulmani. Per raggiungerlo sono costretta a passare attraverso un tunnel chiuso da pareti grigie, percorso all’interno da una decina di uomini e donne armati di mitra. Borse controllate, perquisizioni, via libera. Mi fa impressione, è orribile.
Ci si sente soffocare a Gerusalemme. Camminarci in mezzo è come camminare in mezzo a tutta l’umanità che non sa parlarsi, e ai suoi più spaventosi drammi.
Mi rincuora il panino più buono che abbia mai mangiato. Nelle vie intorno alla moschea, minuscole botteghe cuociono il pane nel forno a legna e lo riempiono di humus e verdure. Ci prendiamo un tè caldo zuccherato e ci sediamo sui gradini a guardare la gente passare, muti davanti alla bellezza degli scenari e alla follia umana.
Nablus
Passare dall’altra parte, in Cisgiordania, non è banale. Prendiamo un autobus che ci lascia a un check point. Ci osservano da una torretta: è proibito attraversare la sbarra a piedi e dobbiamo aspettare. Siamo in una specie di terra di nessuno, finché capiamo che bisogna prendere un taxi autorizzato a transitare. L’autista è simpatico, è arabo con cittadinanza israeliana e nel bagagliaio ha due grandi pompelmi. Ce ne regala uno che ci portiamo in albergo.
Alloggiamo in un hotel dove solitamente vanno le delegazioni internazionali dell’Onu, non c’è molto altro, ma è un bel posto, interessante. Alla reception sono tanto contenti quanto sorpresi di vederci da quelle parti e per facilitarci il giro del centro un signore disegna per noi una mappa su un foglio a quadretti che conservo ancora. In un saloncino buio accanto al ristorante si fuma il narghilè.
La città è composta da edifici ammassati, bianchi e cadenti. Con i soldi dell’Unione europea hanno costruito due enormi centri commerciali, entrambi vuoti. Dentro non c’è nessuno e nessuna merce. Grattacieli spettrali circondati dall’immondizia. I rifiuti sono ovunque in città, a montagne lungo le vie. Un bel salto provenendo dalle ordinate località israeliane. Oltre alla devastante situazione politica, c’è molta corruzione nell’amministrazione locale, ci spiegano; arriva un sacco di denaro dalle istituzioni internazionali che invece di andare a vantaggio delle persone va in tasca ai funzionari, mentre i servizi sono inesistenti.
Miseria, disagio sociale, incuria del territorio, corruzione, mancanza di prospettive politiche ed economiche: il circolo vizioso della povertà si materializza sotto i miei occhi.
Per strada la gente è sorridente, la società è laica, poche le donne con il velo. E’ pieno di giovani, un’altra grossa differenza provenendo da Israele. Mi chiedo che cosa facciano qui, dove non esiste un’economia, se non quella degli aiuti. Non si produce quasi niente, ma una cosa sì, il sapone. Visitare la fabbrica è un’ esperienza, tutto si fa a mano e sono molto orgogliosi che le loro saponette siano esportate ovunque, perfino in Italia. La sera scopriamo un’altra eccellenza: le pasticcerie di Nablus, con le teglie appena sfornate di mille diversi dolci di miele, rimarranno indimenticabili.
Il campo profughi
In Cisgiordania ci sono più di venti campi dove vivono rifugiati palestinesi espulsi dai loro territori in seguito alla occupazione israeliana. Molti risalgono al 1948, alla prima guerra arabo-israeliana, e sono gestiti dalla UNRWA, l’Agenzia dell’Onu che si occupa di soccorrere e assistere questi sfollati. Qui sono circa 200 000, nel mondo quasi 5 milioni.
Camminando, incontriamo una tomba dei patriarchi - presidiata, tanto per cambiare, dalle forze dell’ordine, ma questa volta dell’Autorità nazionale palestinese -, e ci troviamo proprio accanto all’ingresso di un campo, segnalato dal cartello azzurro delle Nazioni Unite. Queste non sono cose che si programmano, ti vengono incontro viaggiando e, se vuoi conoscere, le devi cogliere al volo.
Chiedo a un ragazzo se ci può accompagnare all’interno. Entriamo, e sono colpita da quanto il sobborgo sia enorme, denso di edifici fatiscenti e gente alle finestre. Sono migliaia le persone costrette a vivere qui; la maggior parte non può uscire per andare a lavorare e dentro si sbarca il lunario come si può.
La nostra giovane guida ci racconta che si tratta di uno dei più vecchi campi profughi della Palestina: più di tre generazioni sono nate e vissute qui dentro. Qui dentro, senza possibilità di andarsene e senza speranze per il futuro. E’ qualcosa che mi fa venire la vertigine.
Man mano che ci inoltriamo, le persone ci osservano e comincio a sentirmi a disagio: noi siamo liberi, loro no; noi siamo ricchi, loro no; noi siamo occidentali e capisco che la Storia è più grande di noi e non siamo benvoluti. Usciamo per tornare nel mondo, lasciandoci dietro uno stuolo di bambini che non possono seguirci oltre il cancello.
Grazie per la semplicità ma anche la grande umanità del racconto .
In un mare di informazioni delle quali non si sa mai se fidarsi, leggo la tua testimonianza con estrema gratitudine mentre le parole, una dopo l'altra, mi si depositano sul cuore.