Tahiti. Vita e lavoro dall'altra parte del mondo
Un'occasione straordinaria mi porta a vivere in Polinesia francese. Trasferita all'inizio di dicembre con il mio lavoro portatile, vi racconto Tahiti - e me stessa - al di là degli stereotipi.
Tipicamente tahitiano. Con la famiglia o gli amici, a mollo per ore nella laguna, con birrette, cibo e una cassa acustica riparata da un ombrello. Sono arrivata in spiaggia alle due e sono andata via alle sei. Ed erano ancora lì, a ridere e a divertirsi come matti.
Fiume e oceano
L' isola di Tahiti è molto bella. I turisti - che per la verità al momento sono pochi - spesso la snobbano per mete più esotiche, ma le sue montagne aguzze, le valli profonde scavate dalla lava, le lagune a bordo strada, i mille corsi d'acqua formano panorami idilliaci.
Scopriamo che le valli sono il più delle volte private, gestite da associazioni di proprietari o cacciatori. Ma sono gentili, ci vedono camminare e ci invitano a entrare. Ci immergiamo in luoghi nascosti e magnifici, di foreste e cascate, come all'origine del mondo.
Mi piace girare con l'autobus, per mischiarmi un po' con la gente. Qui è facile, i bus sono abbastanza frequenti e costano poco. In un oretta dalla città, raggiungo la spiaggia nera di Papara, famosa per le sue onde, ideali per il surf, uno sport popolare praticato da tutti. Nel 2024 le gare olimpiche di surf si giocheranno proprio qui, sulla schiuma più spettacolare del mondo.
Queste spiagge hanno una conformazione del tutto particolare, oltre ad essere del colore nero velluto della roccia vulcanica: sono alla foce tra un fiume e l'oceano. L'incontro arricchisce entrambi: le onde si muovono in tutte le direzioni, disordinate e simmetriche ad un tempo, e il fiume le respinge indietro alimentandole in altezza; a sua volta, le ospita, e va in fibrillazione, attraversato da una corrente fortissima.
Rimango incantata a guardare. I più esperti prendono l'onda lontana e la surfano tutta, verso riva e in diagonale, ci volano sopra, volteggiano, per poi sparire sotto, e riemergere, chissà come, intatti. I bambini stanno a riva, provando e riprovando finché ce la fanno, senza paura. Io imito i più pigri: aspetto l'onda nel fiume.
Capisco i tahitiani: pur circondati da tutto questo mare, adorano bagnarsi al fiume. L'onda arriva, ti travolge appena, ti massaggia e se ne va. Non vorrei più uscire.
Pioggia, lavoro, labirinto
Piove fortissimo, piove talmente tanto che tutto intorno alla casa l’acqua fa rumore. Da queste parti, quand’è stagione piove così; scroscia all’improvviso, sembra che non debba più smettere, e poi va, lasciando di nuovo il campo a un bel cielo terso e azzurro. In questo mondo all’incontrario tra un paio di giorni, il 21 dicembre, sarà estate, le giornate cominceranno ad accorciarsi, il caldo e la pioggia si faranno più impetuosi.
Ne approfitto per accendere il mio computer. Al tavolo della cucina, mi concilia un gorgoglio: è il fiume che ha scavato il fosso qui sotto e che la pioggia ha appena trasformato in un vivace torrentello. Niente paura, rientrerà velocemente nel suo letto, non è la prima volta: monta ed evapora, scomparendo non si sa come nel terreno nero e densissimo.
Si lavora bene qui, è calmo. Il verde smeraldo che entra dalle persiane, ancor più lucido dopo il gran temporale, rende l’atmosfera brillante e la luce speciale trasmette ottimismo.
Ho iniziato il soggiorno tahitiano nel pieno delle scadenze editoriali, e non mi è affatto dispiaciuto. Perché?
In un certo senso, il lavoro mi ha agevolato l’ingresso nel mondo nuovo, mi ha permesso una lentezza che altrimenti avrei fatto fatica ad avere. Ha frenato la mia naturale frenesia. Mi ha abituato al ritmo giusto dello stare. Mi ha trasferita dal sorvolo turistico all’abitare.
Lavoro portatile, mia fortunata àncora.
Mi piace pensare al lavoro in questo modo: non un impiccio al viaggio, ma un’opportunità di trasformarlo in qualcosa di diverso. È una prospettiva che ribalta e che lo rende - se ben miscelato agli altri - un ingrediente benefico a molti livelli, non soltanto al fine di ricavarne il necessario sostentamento. Affermarlo è un passo importante, in periodi bui ho visto nel lavoro una catena, fisica e spirituale.
C’è dell’altro, però.
Il mio amico di pratica Long, conosciuto nella comunità zen di Thich Nhat Hanh, a Milano, dice una cosa saggia: non è facile abituarsi alla pace. Ci ho riflettuto parecchio e, al di là degli stereotipi, è in effetti così: si arriva in questa specie di paradiso, lasciandosi alle spalle l’inverno, la città, tutta l’organizzazione messa in atto per arrivare sin qui, e si sta subito bene, benissimo? Tutta questa bellezza è davvero a portata di mano, disponibile per noi? Non esattamente.
Siamo noi, prima di tutto, a dover essere disponibili per lei. Altrimenti, rimane un'esperienza estetica, superficiale. Ed è un percorso, che per essere autentico, richiede una certa sorveglianza, o consapevolezza, come dicono i maestri. Spesso si cerca la pace ma si sta meglio nella fretta, si invoca la pace ma si permane, quasi testardamente, nella propria acqua torbida e agitata. E' un paradosso, ma sembra proprio che la pace sia un luogo più difficile della guerra. La storia sta, del resto, lì a dimostrarlo.
Ci vuole il suo tempo a uscire dal labirinto di se stessi. Mi pare che il lavoro svolga adesso l’inedita funzione del filo di Arianna. Curioso: smatassa la matassa, e mi aiuta lentamente a recuperare il centro, il mio punto di pace, il punto di equilibrio da cui la vita procede.
Ultimamente, ha fatto come il fiume: è scomparso nell'alveo densissimo del fare quotidiano. Ma tornerà, la pioggia è un buon segno.
Stasera, per la prima volta
Stasera, per la prima volta, mi sento un po' tahitiana, mischiata tra la gente nei bei giardini di Paofai, lungo il porto di Papeete. A gustare l'aria finalmente fresca, i piedi nudi verso il mare, alla polinesiana.
Il gran caldo mi ha trattenuto in casa fin verso le cinque, giusto pochi passi in giardino, incantata dai piccoli banani tutto intorno. Intenta a osservare e ascoltare ogni movimento dei vicini: le antenne attive e tesissime, comincio a registrare dentro di me le informazioni del mondo nuovo. Ancora incredula di essere arrivata sin qui. E questa volta, non per viaggiare, e andare. Ma per restare.
Quanto? Non so, il più possibile mi basta, e soprattutto non m’importa. È il restare che cambia la prospettiva, ed è questa l'esperienza che cercavo.
Una passeggiata dolce e lenta, come sono questi luoghi, mi porta nel cuore vivace della città. Percorro a piedi i due chilometri e mezzo che mi separano dal centro. Appena uscita dal cancello, incontro semplici case basse, alcune povere, quasi baracche, altre deliziose, con giardini ben tenuti; cani liberi, galli, galline e persino pulcini circolano tra macchine-contenitori di mille cose e verdissimi alberi del pane. E ci sono i bambini, un sacco di bambini, come non siamo più abituati a vederne. Corrono e giocano fuori, liberi, nelle strade e nei cortili.
Mi accorgo subito che oltre ad essere in Polinesia siamo in Francia. Nel solo quartier Mission, dove abitiamo, si susseguono una quantità di scuole: materna per varie età, scuola elementare cattolica, istituto superiore maschile protestante, liceo pubblico … del resto, ne avevo avuto un saggio nella piccola Ua Pou, nelle sperdute Marchesi. Sei villaggi, sei scuole. In edifici restaurati, colorati, decorati alle pareti.
Allo sguardo del turista, Papeete - 130 000 persone, quasi tutta la popolazione di Tahiti - non è una bella cittadina: da un posto così si pretende l'incanto perfetto, la cartolina da sogno. Ma Papeete non risponde alle aspettative, sarà per questo che mi sta simpatica. È normale, si vive, si lavora. Ha il suo bel mercato del pesce e della frutta, il monumento alle vittime degli esperimenti nucleari perpetrati qui dai francesi per trent'anni, chiese e templi di tutte le religioni, i bus che funzionano bene. E' pulita, e molto civile.
Scopro che sul lungomare, all’ombra di alberi carichi di grappoli di fiori, due volte alla settimana si offre a chiunque voglia partecipare un corso di ginnastica gratuita: le signore mi vedono incuriosita e subito mi invitano. Sono gentili da queste parti, hanno facce larghe e sorridenti. Giovedì sarò certamente dei loro.
Stasera invece resterò ancora un po' seduta sul molo, a guardare la gente, la luce del tramonto e la luna che sale dall'altra parte del cielo. Qualche giorno e sarà piena.
Rue Papeava
A Tahiti abito qui: rue Papeava. Alla periferia della città, in una verde campagna tropicale.
Fa caldo, ma all'interno si sta bene, circola aria dalle persiane in legno e dai due ingressi. Il quartiere Mission, verso la montagna, uno dei più antichi insediamenti sull'isola, è popolare e vivace, e l'atmosfera è di pace.
Imparo subito che dove c'è pap c'è acqua: Papeete, Papenoo, Papeava. E Tahiti ne è ricchissima. Anche noi qui sotto casa abbiamo il nostro fiume.
Nel delizioso giardino, dominato da una grande palma e da un albero da cui si ricava cotone per imbottire i cuscini, ci sono banani e avocado carichi di frutti per noi. Ho già cominciato a raccogliere. C'è perfino un piccolo orto; il simpatico vicino mi aiuterà a metterci un po' di terra buona per piantare insalata e prezzemolo. Con il caldo e la pioggia di questa stagione cresce tutto, dice.
Mi sveglio prima dell'alba, sia per le 11 ore di fuso, sia per le decine di galli che cantano all'unisono qui intorno, nelle strade, e su per tutta la montagna. Mi abituerò, chissà se prima ai galli, o alla pace.