Amare, viaggiare, meditare, tre parole-sorelle della mia vita
Per che cosa vivi? Una domanda per guardare sotto la schiuma
Rocce vulcaniche nella penisola di Shakotan, ovest Hokkaido, Giappone. Il torii (鳥居), il portale shintō posto sulla sommità, segnala che siamo in un luogo sacro.
Una riflessione a voce alta su cose che contano, e perché.
Amare
Amare può apparire una parola un po’ scontata, ma non lo è. E’ qualcosa di naturale e, ad un tempo, difficile. Al di là di ogni retorica, implica grande apertura e disponibilità, qualità che non sono sempre presenti e che per alcuni, tra cui me, richiedono un apprendimento. Magari si cresce associando l’amore alle richieste, al possesso, alle aspettative, al legame, al dovere, e poi evolvendo si capisce che c’è molto altro, molto più complicato da attuare. Come accettare, non giudicare, comprendere, sostenere, volere bene anche quando ci costa. E questo nei confronti di se stessi e degli altri.
Credo pochissimo all’istinto. Amare è una pratica, si impara facendola, come la maggior parte degli atti umani. Non si arriva mai, il risultato è temporaneo, precario, fragile. Richiede verifica per tutta la vita, introspezione, aggiornamenti, perché noi cambiamo e cambiano anche le persone che ci circondano. E’ un continuo esercizio di sintonia, se si vuole tentare di avere relazioni significative nel tempo, e non accontentarsi dei simulacri.
Amare significa avere cura, e la cura si estende dalle persone alla natura, al mondo. E anche questo è piuttosto impegnativo se è preso sul serio. La nostra è un’epoca di responsabilità individuali e per questo pesanti; quando le azioni erano collettive in un certo senso era più semplice. Quando facevo politica, la cura era un programma sociale, condiviso da tanti. Oggi sta a me, a ognuno di noi. La cura dell’ambiente nella quotidianità, la cura della giustizia, la cura delle relazioni, la cura dei pensieri e del linguaggio, per non agire o parlare violentemente. E’ un impegno etico che troppo spesso ci sfugge o va in secondo piano rispetto ad esigenze più immediate. E allora va ripreso, ricominciato, perché dà senso all’esistenza.
Lo stesso fa la benevolenza, l’esercizio della benevolenza, della fiducia, della gratitudine, in un contesto che tende ad essere cinico e a spingere le persone alla diffidenza, all’egoismo e alla difesa del proprio. Io penso che oggi l’atteggiamento benevolente verso il prossimo, da qualunque parte provenga, sia un atto rivoluzionario. E siccome spesso è in contrasto con il sentimento dominante richiede determinazione, una specie di disciplina del bene. Non si tratta di porgere l’altra guancia né tantomeno di dover essere buoni, per carità! Sto parlando di una predisposizione interiore generale che fa propendere per la comprensione piuttosto che per la critica, per la condivisione piuttosto che per la separazione.
Una ricerca del noi anziché dell’io. Questa per me è la pratica dell’amore, in ogni senso, intimo o amplissimo.
Viaggiare
Il viaggio è una dimensione del noi, molto forte. Lo sento intorno, ci sono immersa. Sono parte di questa umanità sconosciuta che cammina vicino a me, sono una tessera di tutti quei sentimenti. Sono proprio goccia nel grande mare.
A Hong Kong sono stata invitata a un pranzo, unica estranea tra quindici cinesi. Il più anziano ha fatto un brindisi: ai fratelli e alle sorelle riuniti intorno a questo tavolo. E’ questa la pace, non servono altre parole.
L’amore per il mondo è un presupposto del viaggio e insieme un suo derivato. Questo non significa amare tutto quello che si incontra o si attraversa, sarebbe stupido. E non è un mi piace/non mi piace, altrettanto svilente. Si tratta di sviluppare un interesse sincero, seguirlo e tenerlo vivo. Andare verso il nuovo con curiosità, senza preconcetti, senza mettere noi stessi davanti al mondo ma facendo anzi un passo indietro per far parlare quel luogo, quella cultura, quella persona.
«Bisognerebbe essere viaggiatori capaci di rimanere nell’ombra, osservatori, non protagonisti. Sono gli altri, le storie che incontriamo, i luoghi, le persone a fare il viaggio», così pensava il più grande dei viaggiatori, Ryszard Kapuściński.
Viaggiare è ascoltare, imparare qualcosa con umiltà e rifletterlo in noi stessi. Farci cambiare da quello che accade, non resistere, confondersi. E’ arricchirsi di un frammento e lasciare un pezzo. Spesso in viaggio provo questa sensazione di essere porta girevole, dove le cose entrano ed escono. E non è forse lo stesso per l’amore?
Non c’è bisogno di andare lontano. E’ il come che fa la differenza, più del dove. Il viaggio è una componente dell’esistenza, siamo tutti viandanti, anche chi sta fermo. La mia amica Anna, con una espressione bellissima, si definisce nomade sul posto.
Ecco un’altra citazione perfetta di Kapuściński: «Il nostro dovere è essere insoddisfatti, cambiare sempre punto di vista, ma avere rispetto per il mondo. Bisogna camminare, riscoprire la lentezza, avere dubbi e timori, ma continuare a viaggiare».
Anche il viaggio è cura e anche il viaggio è fiducia. Queste dimensioni si avvertono in modo particolare nell’andare in solitaria. Ad ogni ripartenza, mi rafforzo nelle virtù che considero benefiche per la vita e fronteggio le paure e le insicurezze che sempre vengono con me. Per questo nel viaggio cresco e nello stesso tempo mi mantengo giovane; sono costretta ad avere a che fare con l’autenticità, sono costretta a comunicare al meglio con me stessa e con gli altri. Quando si è soli le verità vengono a galla.
Nel viaggio entro in contatto con esperienze, contesti sociali e storie che mai avrei immaginato e che mai avrei conosciuto se fossi rimasta nel mio recinto. Voglio essere donna del mio tempo, partecipare all’evoluzione, sapere come stanno le cose. Dove stanno andando gli altri rispetto a me, a noi, alle nostre società occidentali. Allora il viaggio è una occasione di studio, mi informo, cerco di capire, scrivo.
Viaggiare è movimento, e io non sono ancora pronta per fermarmi. Movimento del corpo e dei pensieri che fa stare bene, mantiene forti, contiene gli acciacchi. Il movimento richiede una vita leggera, adeguata all’età che avanza. Tutti quei pesi burocratici, quegli oggetti, quegli impegni, quei progetti sono svaniti, ridotti all’essenziale.
Togliendo molte fatiche pratiche il lavoro e il riposo, suo inseparabile compagno, trovano il giusto spazio. Entrambi non possono e non devono mancare, ma più si va avanti più bisogna fargli largo. E’ finito il tempo del far tutto, una cosa via l’altra, cambia il ritmo. Diventa lento, per scelta e per necessità.
Meditare
Giungendo alla terza parola chiave, mi accorgo che le tre sono sorelle, hanno in comune molto più di quello che intravedevo all’inizio della scrittura. La scrittura è in effetti essa stessa un viaggio di scoperta. E per me, anche una forma di meditazione.
Intendo qui infatti “meditare” in modo largo e comprensivo, come una attività che va oltre l’atto formale di sedersi a occhi chiusi per ritrovarsi, e ha a che fare con l’esistenza nella sua interezza. Al fondo c’è una qualità superiore - che condivide con l’amare e con il viaggiare - che è l’attenzione. Ho già parlato di questa virtù nel Viaggio della leggerezza, è un tema che mi è caro perché l’attenzione può cambiare profondamente la vita.
L’attenzione è pienezza, presenza a noi stessi e alla realtà in cui ci troviamo. E’ la prima e l’ultima risorsa: quando non possiamo fare niente altro, possiamo sempre esserci, prestare attenzione. E’ un potenziale straordinario per condurre una buona esistenza, di cui spesso ci dimentichiamo. Non per cattiva volontà, ma perché non è riconosciuta nella società, non si insegna, non si coltiva per se stessa ma al più per qualche utilità. E’ un richiamo - stai attenta! - e non un valore.
Eppure, è proprio attraverso l’attenzione, la presenza, una mente concentrata che si sperimenta il benessere, l’equilibrio, persino attimi di pace interiore. Un rarissimo stato di grazia che vale la pazienza di questa pratica.
L’attenzione ha un’altra grandissima capacità: cattura il tempo, lo attraversa in tutta la sua estensione e intensità. E’ un’àncora per non fuggire, per stare dove si è, per non perdersi nel fuoco dei pensieri o mancare le cose importanti. La metto come terza, ma mi rendo conto che è la prima, da cui dipende tutto il resto.
Non sopporto di fare più niente senza attenzione, senza cura, senza interesse, di fretta, per qualche altro scopo che non sia proprio quella cosa che sto facendo. La distrazione mi crea disagio, rovina le relazioni, provoca confusione nelle decisioni, nel lavoro, in ogni semplice attività. In un’epoca di distrazione e di distrattori di massa, come sono i social network, mi prefiggo di essere attenta, sveglia, vigile. L’addormentarsi nella realtà, l’assuefarsi, l’abituarsi mi fanno paura individualmente e socialmente. E oggi sono una minaccia concreta.
Sono queste le cose per cui vivo, per le quali le mie giornate prendono senso.
E tu, per che cosa vivi? E’ una domanda che un antico rabbi rivolgeva ai suoi discepoli per costringerli a guardare sotto la schiuma. Di tanto in tanto mi piace rivolgermela e rivolgerla agli altri per arricchire le mie risposte.
Un abbraccio, Cristina
Laghi bollenti e vapori, Noboribetsu, sud Hokkaido, Giappone.
Grazie per i tuoi pensieri. Un viaggio bellissimo che scava nel profondo.
Per me è la newsletter più bella che tu abbia scritto! Io ho notato che più scrivo e più mi addentro in riflessioni e pensieri, che non sapevo nemmeno di provare. Non so se provi qualcosa di simile, scrivendo questa newsletter: ogni puntata è un viaggio interiore. Bellissimi i concetti come umiltà e pratica, che oltre alla meditazione si sposano molto bene con lo yoga.