Sei eremita o viaggiatore?
Due antichissimi archetipi che ognuno di noi ha dentro si sé. Complementari e antidoti uno dell'altro, entrambi necessari al nostro buon vivere.
Carissimi, ben trovati tra i Pensieri Nomadi.
Vi scrivo dalla casetta di Pitelli, una bella tana affacciata sul Golfo dei Poeti dove sono da dicembre per qualche mese. Ne ho parlato di recente (e vi ringrazio per aver apprezzato in tanti il racconto di vita in un piccolo borgo italiano).
Quello che vedete qui sopra è il mio altarino. Mi piace costruirlo con quello che trovo nelle “case volanti” dove mi capita di soggiornare. E’ un punto di luce e di gratitudine alla vita, niente di religioso in senso tradizionale. Bastano una candela, un fiore, l’incenso, e si può riprodurre ovunque. Queste bacchette vengono dall’ultimo viaggio in Vietnam e le porto con me nello zaino.
La settimana scorsa non mi avete sentita perché ero immersa nella chiusura di un lavoro editoriale - un atlante storico cartografico - che mi ha molto impegnato. Amo fare le cose, e soprattutto scrivere, in tutta tranquillità e quindi ho passato. Adesso la mia testa è tornata disponibile e leggera ed eccomi qui.
Buona lettura e grazie. Se non sei ancora iscritta o iscritto puoi farlo ora.
In un libro di Thomas Leoncini, poliedrico scrittore-psicologo, intitolato L'ansia del colibrì, l'autore esplora in modo semplice e intuitivo gli archetipi che ci abitano. Sono figure simboliche maschili e femminili - indagate per la prima volta dal grande psicoanalista e filosofo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) - che da tempi remoti si sono depositate dentro gli esseri umani, nei comportamenti sociali come nell' inconscio, e che hanno corrispettivi storici concreti.
Archetipo è una parola di origine greca che significa “il primo esemplare, il modello originario”, in termini moderni potremmo dire la matrice. Sono immagini primordiali che incontriamo nei miti, nelle favole, nella letteratura, ma anche nei sogni e nel nostro agire quotidiano, magari senza saperlo.
Sono l’eroe, il santo, l’inventore, il mago, il saggio, il colpevole, l’innocente, il ribelle, l’orfano, l’amante, il giullare, il vecchio, il viaggiatore, l’eremita … E ognuno corrisponde a un bisogno profondamente umano, lo esprime nella sua massima essenza. Ne riconosci qualcuno, ti riconosci in qualcuno?
Tra le figure più universali, mi hanno attratto il viaggiatore e l’eremita, entrambe parte di me - l’autore propone anche una sorta di “test” per comprendere quali forze prevalenti lavorano dentro di noi - e, indagandole, penso che appartengano un po’ a tutti, in varie misure o in diverse fasi della vita. Tra Ulisse, emblematico viaggiatore, e il monaco che ha fatto dell’eremitaggio la sua esistenza, esistono mille sfumature di grigio che ognuno può ricondurre a sé.
Come si nota subito, il viaggiatore e l’eremita sono una coppia di opposti.
Il viaggiatore rappresenta infatti il nostro bisogno di incontro, di relazione, di esplorazione, la tensione verso l’ignoto ma anche verso i nostri simili. La socialità, la curiosità, l’apertura, la ricerca dell’altro in termini di luoghi e esseri umani. Al tempo stesso, però, il viaggiatore è anche la fuga, il non voler ritornare, un andare sempre oltre; in un certo senso, l’irresponsabilità di rimanere fuori di sé.
L’eremita cerca invece se stesso, o la natura o il divino in se stesso. Vive la sua vita in profondità più che in estensione. Esprime il bisogno di solitudine, raccoglimento, riflessione, introversione, introspezione, silenzio. Il bisogno di creare il proprio mondo, e di rimanervi. Al tempo stesso però l’eremita è anche la difficolta della relazione e della integrazione, che può raggiungere la fobia sociale, il rifiuto del mondo e la chiusura verso gli altri.
Il nostro equilibrio psicologico e esistenziale è fondato sulla complementarietà di queste due figure simboliche: stiamo bene quando agiscono come antidoti l’una dell’altra, mitigando le reciproche espressioni estreme e distruttive. Le forze più profonde che ci abitano da sempre ci indicano di vivere attivamente entrambe queste dimensioni. A non contrapporle, a non averne paura. A stare con la maggiore consapevolezza possibile tanto nella solitudine quanto nel mondo.
Queste immagini antiche sono un richiamo per noi e per la modernità che attraversiamo.
Ci insegnano a coltivare il nostro eremita interiore come spazio di crescita e di creatività, come spazio del pensiero. Moltissimi oggi non cercano la solitudine, ne hanno paura, anzi la rifiutano come un disvalore, oppure credono di non averne bisogno. La tecnologia che ci tiene iperconnessi fa leva proprio su questa ansia di rimanere isolati, disabituandoci alla preziosa bellezza del raccoglimento, del silenzio, dell’ascolto di sé. Per non parlare del fatto che è la stessa tecnologia a isolarci, riempiendo il nostro tempo di una socialità spesso vuota e tossica.
Nella nostra società di comunicazione continua, riappropriarsi della solitudine, della introspezione e della concentrazione è un esercizio di libertà, un atto rivoluzionario. Che può dare un nuovo senso anche al nostro stare nel mondo. Ci aiuta a non essere superficiali, a non disperderci nei suoi meandri, persino negli affetti, tornando sempre nel proprio centro.
L’eremita è un elemento di forza, non di debolezza né di isolamento. Che aiuta il nostro viaggiatore interiore ad essere veramente tale, e non un semplice consumatore del mondo, dei luoghi, degli altri. Spesso, anche senza volerlo, ci troviamo ad essere puri utilizzatori di ciò - e addirittura di chi - ci circonda; la fretta, il produttivismo, l’ansia di sicurezza ci tolgono curiosità, ci sottraggono all’apertura e all’incontro autentico, soffocano l’afflato tipicamente umano all’esplorazione. L’antidoto è allora proprio uscire con coraggio dalla nostra piccola sfera, con cura e passione della ricerca.
Non c’è bisogno di partire per chissà quale angolo remoto del pianeta. Ciascuno conosce molto bene il perimetro della propria zona di comfort, che ci rassicura ma che può anche tenerci intrappolati. Mettere un piede fuori è il primo passo del viaggiatore.
Sta a ognuno coltivare la giusta miscela, concedendo tempo e spazio all’eremita e al viaggiatore per vivere bene. Personalmente, sono in una fase piuttosto ritirata, che mi permette di approfondire alcune questioni che, di tanto in tanto, hanno bisogno di una verifica: il senso di quello che faccio, le direzioni del lavoro, la qualità delle relazioni, se la vita nomade sia soddisfacente. Penso, medito, scrivo, studio e cammino, a questo cerco di dare la priorità, compatibilmente con la vita pratica.
Il piccolo paese di Pitelli giova a questo stato. Nel frattempo, tengo acceso il fuoco del viaggiatore, nell’attesa che prenda nuova linfa e consistenza.
E tu, sei eremita o viaggiatore?
Leggerti Cristina, mi fa sentire sempre compresa e "meno sola" <3
Grazie! :)
Interessante davvero, per molto tempo, in Italia, mi sono sentita in dovere di nascondere la parte eremita in nome della socialità, del divertimento obbligato ma mi sono accorta che anche adesso, pur vivendo il viaggio anche come un'ancora lanciata che mi da il tempo di immergermi nelle profondità del mio abisso, faccio una fatica estrema a lasciare la superficie dell'acqua...